Rolling Stones, ritorno kolossal a Roma
di Marco Molendini
ROMA (7 luglio) - E se fosse l’ultima volta? Facciamo i debiti scongiuri. Mettiamo nel conto anche il fatto che, nonostante tutto quello che hanno combinato nella loro vita niente affatto tranquilla, Mick , Keith, Ron e Charlie sono decisamente in palla. Eppure pensare che davvero i quattro ex ragazzacci britannici, esempio di trasgressione possano mettere in piedi un altro tour nel prossimo futuro, magari alla soglia dei settant’anni, è quanto meno inverosimile. E, allora, prendiamo come occasione unica questa loro visita a domicilio, ritorno in Italia a soli dodici mesi di distanza dalla tappa milanese, ma con lo stesso show, più o meno le stesse canzoni, lo stesso fantastico, trascinante, colossale concerto.
Due ore in uno stadio Olimpico caldo e sfacciatamente con molti vuoti (massimo 35 mila spettatori): effetto boomerang per il caro biglietti che partiva da 170 euro. Peccato, perchè, quello degli Stones è un grande spettacolo dove gli occhi contano più delle orecchie, ma dove la musica è trascinante, travolgente, davvero degna della più grande rock ’n’ roll band del mondo, una compagnia itinerante di leggende (valla a trovare un’altra coppia come quella formata da Jagger & Richards), magari un po’ affaticate dall’uso ma che, pur essendo incastrati in un meccanismo commerciale con pochi eguali, sono ancora capaci di comunicare passione autentica.
La musica si appoggia a una band rinforzata da una serie di spalle sperimentate e coi controfiocchi (dal bassista Darryl Jones al tastierista Chuck Leavell a una bella sezione di fiati). E poi c’è la forza del repertorio, un songbook lungo quarant’anni e più che non dà tregua alle nostalgie e che viene sfogliato senza reticenze. Sbucano splendidi classici d’epoca come It’s only rock’n’roll, la ruggente Honky tonk woman, l’avvincente Paint it black, l’incalzante Jumpin’ Jack Flash, e, naturalmente, Satisfaction, brano simbolo in una versione a tutto ritmo che fa vibrare lo stadio. Il tutto mescolato in assoluta continuità con il repertorio più recente, quello del disco A bigger bang, da cui prende le mosse questo tour, dando spazio a nuovi pezzi come Rough justice.
Mick è il primo attore, instancabile folletto che corre su e giù per il palco senza soste, balla, salta, gesticola, canta spalancando quella sua bocca enorme da pescecane senza mostrare un momento di stanchezza (fa persino venire il sospetto che ci sia qualche diavoleria tecnologica a venergli in soccorso): fantastico, inimitabile. Roba da patto col diavolo: il più grande performer che ci sia in circolazione, uno sfacciato esibizionista, debordante piacione che si mette anche ad adulare il pubblico in italiano: «Che fanstastico essere qui dopo 17 anni, siete bellissimi come allora» parte subito Richards, bandana e elegante giacca a righe fosforescenti, un vero prezioso pezzo d'antiquariato anni 70, nonostante l’artrite segna la serata con quella scia sonora che è il marchio di fabbrica di un gruppo che ha avuto la faccia tosta di continuare a proporsi per quattro decenni, e quando si avventura a cantare in un paio di blues (consentendo l’unica pausa all’amico Jagger) sfodera tutta la sua musicalità di interprete. Ron Wood sembra uscito da un cartone animato, ma quando ha spazio fa scatenare la sua chitarra, Charlie Watts in t shirt non si stacca un momento dai suoi piatti e tamburi.
Si, funzionano gli Stones, altrochè. E il loro sarebbe un gran concerto, forte e potente, perfino torrido quando danno fondo ai pezzi più caldi come Miss You, Brown Sugar (il bis), o addirittura tenero quando rievocano la splendida Ruby Tuesday o quando trovano modo di sottolineare il loro legame con la black music offrendo un caldissimo omaggio a James Brown con la sua I’ll go crazy, un blues carico di adrenalina che mette in evidenza le tonsille d acciaio della corista Lisa Fisher. Si sarebbe davvero un gran concerto (e lo è) se non fosse anche altro: un musical, un varietà gigantesco, un circo che si divide fra fuochi artificiali e luminarie, che si muove su un palco che è quasi una stazione spaziale da cui a un certo punto si stacca perfino uno shuttle che attraversa lo stadio e si ferma con il suo prezioso carico, la band al suo completo che continua a suonare, sul lato opposto della platea. E come se non bastasse ecco una bocca enorme, lo sberleffo che fa da marchio di fabbrica del gruppo, che prende corpo gonfiandosi sul tetto del palco. Che si può chiedere di più al Rolling Stones Kolossal Show? Davvero peccato per chi non c’era.