00 15/01/2010 10:36
E nell’altra metà dell’isola si gioca a golf


Sottovoce, o ancor meglio in silenzio, come imporrebbe l’etichetta del green. Ma non vi è dubbio che alle 16,53 di martedì scorso, chino su una qualsiasi delle diciotto buche dell’esclusivo Golf Club La Estancia di Santo Domingo, più di un giocatore in braghe a scacchi avrà imprecato a modo suo, ripetendo nelle diverse lingue del creato la volgare quanto storica esclamazione del generale Pierre Jacques Etienne, visconte di Cambronne, alla faccia del generale inglese che gli chiedeva di arrendersi sul campo di battaglia di Waterloo. E il medesimo improperio, in quello stesso angolo di Caraibi, sarà stato più o meno sussurrato alla buca numero 9 del Naco Country club, oppure al drive di partenza del non meno lussuoso Cayacoa. Perché quel prolungato tremore lungo un minuto, che sembrava arrivare da lontano, aveva fatto sussultare l’erba rasata e ben ravviata, mandando a finire chissà dove le palline. Finendo così per infrangere tanti sogni personali di un percorso finalmente netto.
Perché ognuno ha i suoi problemi. Perché è così che vanno le cose - o meglio, è così che purtroppo possono andare - su questa pazza Terra. Dove c’è chi si danna per un irrilevante mancato par; e chi, a «soli» 800 chilometri di distanza, in 60 secondi di saliscendi impazzito, su e giù per i micidiali gradini della scala Richter, vede sbriciolarsi la sua casa, morire i parenti, sparire gli amici. O addirittura finire la sua stessa vita.
Oggi Hispaniola, gigantesco scoglio ricoperto di verde che emerge dall’azzurro del Caribe, appare proprio questo. Ovvero, l’assurda epitome, la stridente sintesi del modo in cui una semplice riga tracciata sulla carta geografica possa marcare un confine incredibilmente ingiusto e crudele. Di qua, a Ovest, quello che non certo dall’altro ieri è sempre stato il buco nero di Haiti. Ovvero il luogo geografico dove un destino non pago di averla condannata a essere la nazione più misera di tutte le Americhe - con un dollaro al giorno di reddito medio - martedì pomeriggio vi ha anche fatto arrivare, in anticipo, la fine del mondo. Mentre di là, a Est, sulla spiaggia di Boca Chica, viene offerta con la formula del «tutto compreso» - mare, sesso e anche droga, basta chiedere - una realtà che non sarà perfetta, che è certo ben distante da un Paradiso, ma che senza dubbio ha poco a che spartire con l’oggettivo Inferno, passato, e soprattutto presente, di Port-au-Prince.
Perché ben prima che le misere baracche e i patetici palazzi in cemento totalmente «disarmato» di Haiti venissero giù come meringhe, violentemente scossi dalle viscere di un suolo che tutti da sempre sapevano ad alto rischio sismico, a Est, a Santo Domingo, cresceva e si sviluppava la parte più estesa e più ricca di quella stessa grande isola - tre volte la Sicilia, quasi il doppio della Svizzera - scoperta e colonizzata da Cristoforo Colombo nel 1492. Uno sviluppo forse disordinato, quello di Santo Domingo. Ma inarrestabile.
Spinto in massima parte da quella risacca umana, di bocca buona, ma comunque gonfia di dollari, che è il turismo di massa, industria che riempie a getto continuo voli charter e villaggi turistici, alberghi e residence in affitto con il popolo dell'inclusive tour. Un popolo dove sudano e spintonano giovani e meno giovani maschi, visibilmente allupati, alla ricerca di ragazze dalle natiche sode e dalla frangibilissima moralità, coppiette in viaggio di nozze a cui basta e avanza un tramonto rosa per precipitarsi in camera dimenticando tutto il resto, sedicenti ballerini di merengue assetati di musica, ma anche sinceri appassionati di silenziose immersioni tra i fondali di una splendida barriera corallina. Sono centinaia di migliaia di persone ogni anno, provenienti da tutto il mondo, 130mila in media soltanto dall’Italia. E non le ferma nulla, nemmeno il terremoto, come ha confermato ieri il ministro del Turismo domenicano, Francisco Javier Garcia, sottolinenando compiaciuto come «al momento nessun volo e nessun viaggio organizzato sono stati cancellati».

Ma qui, a Santo Domingo, arrivano anche altri. Sono molti di meno, ma sono i ricchi e famosi, da Shakira a Jennifer Lopez, da Jimmy Carter alla regina d’Olanda. Sono quelli che si fanno vedere poco o che non vogliono farsi vedere del tutto, che atterrano e ripartono con i loro jet, che appaiono come meteore nelle discoteche esclusive o ai tavoli dei ristoranti alla moda come l’italianissimo Bellini e che poi si trincerano anche soltanto per una settimana negli attici da un milione di dollari. O sono ancora quelli che scelgono di viverci natural durante (20mila i residenti di nazionalità italiana), o magari soltanto in attesa che la giustizia del loro Paese tiri una riga definitiva e indulgente, come fece quella italiana con il rubizzo ex patron del Perugia Calcio, Luciano Gaucci, rimasto qui dal 2006 al 2009. Chiuso come tanti altri in una villa nascosta dalle bouganville, zeppa di cuochi e camerieri, ma necessariamente anche difesa da eserciti di gorilla privati. Perché la criminalità non scherza in un Paese dove comunque l’85% della popolazione vive ancora in condizioni poco più che precarie.
Ma di aspiranti expat, pur se più ruspanti, ne continuano ad arrivare anche d’altro genere. Gente di discreto censo, con una buona rendita o con una pensione dorata che spera così di far rendere di più. Gente che decide da un giorno all’altro di dire addio alla fabbrichetta o alla moglie invadente, allo smog piuttosto che al Fisco rapace, al traffico così come alla banale, ma fastidiosa, schiavitù della cravatta. Adulti che inseguono un romantico sogno di Paradiso terrestre alla Gauguin. Oppure quello meno colto di un assolato e tardivo Paese dei Balocchi. Dove tuttavia, assicura chi Santo Domingo la conosce bene e da tempo, sono sempre tanti, forse troppi, i Gatti e le Volpi in attesa di sottrarre gli zecchini d’oro agli ingenui Pinocchi. Sempre troppi, anche loro.

ilgiornale.it
Ciao Ní
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