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Cuore salva cuore

Ultimo Aggiornamento: 24/03/2006 15:40
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INFARTO / LE NUOVE REGOLE PER PREVENIRLO




Serenità. Affetti. Amicizie. Contano come e più degli stili di vita per salvarsi dalle malattie cardiovascolari. Ecco cosa prescrive la neonata psico-cardiologia


di Anne Underwood


Lo chiamano Effetto Northridge, dal forte terremoto che colpì l'area intorno a Los Angeles alle 4.30 di una mattina del gennaio 1994. Nei mesi seguenti la catastrofe i ricercatori di due università esaminarono i dati del medico legale relativi alla contea di Los Angeles, riscontrando un impressionante aumento delle morti dovute a episodi cardiovascolari, saliti da una media giornaliera di 15,6 a ben 51 il giorno del terremoto. La maggior parte delle persone colpite risultò avere alle spalle un passato di malattia coronarica, oppure qualche fattore di rischio, come la pressione alta. Eppure, i morti non erano coinvolti negli sforzi dei soccorsi, né stavano cercando di tirarsi fuori dalle macerie. Perché erano morti, allora? Con tono sobrio e asciutto il 'New England Journal of Medicine', afferma che "negli individui predisposti, lo stress emotivo può precipitare un evento cardiaco". Insomma: quel giorno a Los Angeles un sacco di gente è morta di paura.

Lo studio Northridge e altre ricerche di questo tipo, come quelle sui sopravvissuti al terremoto di Atene del 1981 e sugli israeliani che nel 1991 subirono gli attacchi dei missili Scud iracheni, hanno contribuito a dar vita a quella che potremmo definire 'psico-cardiologia', la scienza che studia le connessioni tra le emozioni e il sistema cardiovascolare. Per molto tempo i cardiologi hanno confutato l'idea che il cuore potesse andare incontro a esito fatale in seguito a un evento che interessa la sfera psichica. Ma sempre più osservazioni paiono proprio indicare che alcuni stati emotivi cronici, come lo stress, l'ansia, la rabbia e la depressione, facciano molte più vittime di quanto comunemente si creda. "Il 50 per cento di coloro che sono colpiti da infarto non ha un alto livello di colesterolo", spiega Edward Suarez, professore associato di psichiatria e comportamento umano alla Duke University. Il rischio associato ai fattori psicologici e sociali è quasi altrettanto alto di quello dell'obesità, del fumo e dell'ipertensione, i tipici segni clinici delle malattie cardiovascolari. I ricercatori finalmente stanno iniziando a capire perché e un crescente numero di centri clinici sta sfruttando queste nuove conoscenze per mettere a punto dei programmi in grado di combattere la malattia cardiaca in una delle sedi più improbabili: la mente.

Negli anni Ottanta, quando era infermiera nel reparto degenti gravi del Mad River Community Hospital nella California settentrionale, Debra Moser ha visto più e più volte che l'atteggiamento tenuto dai pazienti pareva influire direttamente sull'evoluzione della loro malattia. In particolare, fu colpita dal caso di un uomo, poco più che cinquantenne, colpito da un infarto senza complicazioni. Nel giro di due o tre giorni avrebbe dovuto essere dimesso, ma rimase invece in ospedale sei giorni. "Quella fu la prima volta in cui mi resi conto degli effetti del pessimismo", ha detto Moser: "Quel paziente era molto depresso, cosa non del tutto insolita dopo un attacco cardiaco, ma lui era quasi ossessionato da tutto, era iper-vigile nei confronti del suo caso". Nel giro di un anno quel paziente ebbe un secondo infarto e morì. Qualche tempo dopo Moser, diventata docente di tecniche infermieristiche all'Università del Kentucky a Lexington, decise di studiare gli effetti osservati in quel paziente. A un meeting dell'Associazione americana di cardiologia l'autunno scorso ha presentato l'esito di un'indagine su 536 infartuati. Moser ha determinato i loro livelli di ansia e ha registrato se i soggetti avevano presentato qualche ulteriore complicazione (come un secondo infarto) mentre erano ancora degenti in ospedale. Coloro che presentavano i più alti livelli di ansia nel test psicologico avevano probabilità di patire complicazioni quattro volte superiori rispetto ai pazienti con i livelli più bassi di ansia.

Di fatto, i medici stanno scoprendo che i fattori psico-sociali sono un indice di rischio molto superiore a quanto sinora ritenuto. La depressione, per esempio: come minimo raddoppia il rischio di un attacco cardiaco in una persona per altro sana. Lo afferma Michael Frenneaux, docente di medicina cardiovascolare all'università di Birmingham in Inghilterra. Negli individui che hanno già subito un infarto in passato, poi, la depressione arriva a quadruplicare o perfino quintuplicare il rischio di averne un secondo. Anche la rabbia è un fattore di rischio cui si dà sempre maggiore importanza: alti livelli di ostilità, misurati per mezzo di un test standard, aumentano le possibilità di morire in seguito a una malattia cardiaca del 29 per cento, come è emerso da uno studio su numerosi pazienti della Duke University, e di oltre il 50 per cento nelle persone fino a 60 anni d'età.

Anche i traumi infantili paiono avere un impatto sulle malattie cardiache che si presenteranno più avanti nel corso della vita. In una recente indagine condotta su oltre 17 mila adulti a San Diego, Maxia Dong del Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie, ha riscontrato che il rischio di infarto aumenta del 30-70 per cento nelle persone che hanno segnalato brutte esperienze in età infantile, per esempio maltrattamenti fisici, abusi sessuali o emotivi, violenza domestica, un famigliare che ha fatto abuso di stupefacenti o di alcolici. Unica nota rassicurante è che la separazione o il divorzio dei genitori - unica tra le dieci variabili studiate - non ha alcun effetto sul rischio di essere colpiti in futuro da un attacco cardiaco. Non solo. Uno studio pubblicato dalla rivista 'Lancet' ha esaminato oltre 11 mila individui colpiti in 52 paesi diversi da un infarto: nel corso dell'anno precedente l'evento, i pazienti avevano vissuto in condizioni significativamente più stressanti - per motivi di lavoro, per questioni famigliari, in seguito a guai finanziari, per depressione o altre cause ancora - di quelle di 13 mila soggetti sani considerati a confronto.

Perché questi fattori stressanti hanno un simile forte impatto? Certo, gli stati emotivi condizionano il comportamento: è poco probabile che le persone depresse o colleriche seguano un regime dietetico o facciano esercizio fisico ed è molto più probabile che fumino. Ma il comportamento è soltanto l'inizio: le emozioni negative hanno un loro impatto diretto. Il corpo rilascia gli ormoni dello stress, come il cortisolo e l'adrenalina, che aumentano la pressione sanguigna e i livelli di glucosio del sangue. Nel lungo periodo la pressione alta e il glucosio elevato danneggiano i vasi sanguigni.

Oggi le ricerche si concentrano sugli effetti delle infiammazioni. "Le persone ostili e depresse reagiscono al mondo esterno in modi chimicamente diversi", spiega Suarez. Questi soggetti infatti interpretano come stressanti molte più situazioni, provocando il rilascio di una quantità maggiore di ormoni dello stress. Il sistema immunitario reagisce aumentando l'infiammazione, che a sua volta promuove la malattia cardiaca in qualsiasi stadio essa sia, dalla formazione di una placca all'attacco cardiaco vero e proprio. In uno studio del 2004 Suarez ha notato che le persone colleriche, ostili o depresse hanno livelli sanguigni molto più alti di un marker infiammatorio detto proteina C-reattiva, fortemente correlata al rischio cardiovascolare.

Ma a parte l'infiammazione, è sempre più evidente che è l'adrenalina stessa a rivelarsi devastante per il cuore. Ilan Wittstein del John Hopkins di recente ha identificato una condizione detta cardio-miopatia da stress, o anche 'sindrome del cuore rotto', che almeno in apparenza è assai simile a un infarto. I pazienti del dottor Wittstein avevano tutti vissuto uno shock molto forte (la morte improvvisa di un genitore o di un figlio, un incidente di macchina, una rapina a mano armata, persino una festa di compleanno a sorpresa) e la capacità del loro cuore di pompare sangue si era ridotta all'improvviso. I loro sintomi riproducevano in tutto e per tutto quelli di un attacco cardiaco. Senza, però, alcun segno della presenza di un'ostruzione nelle loro arterie coronariche e pochissimi marker chimici ematici di morte del tessuto cardiaco. Diversamente poi da chi sopravvive a un infarto, per uscire completamente dal quale occorrono mesi, questi soggetti solitamente si riprendono del tutto nel giro di 72 ore. Che cosa accade nel loro petto? Wittstein ha notato che i livelli sanguigni di adrenalina in questi pazienti sono 30 volte superiori alla norma, persino circa 4-5 volte superiori a quelli dei pazienti che hanno realmente un infarto, e ipotizza che questo potente ormone interferisca, sconvolgendolo, con il sistema col quale le cellule del cuore assorbono il calcio, essenziale per consentire loro di contrarsi.

Se le emozioni negative o stressanti contribuiscono alle malattie cardiache, possiamo presumere che le emozioni opposte rappresentino una strada affidabile per la cura o la prevenzione? Si consideri per esempio che cosa è accaduto quando lo psicologo Timothy Smith dell'Università dello Utah ha assegnato a 82 studenti del college un compito concepito appositamente per elevare il livello di stress. E ha chiesto loro di scrivere alcune righe su un amico intimo o su una conoscenza casuale. Durante la successiva ripresa filmata, ha detto Smith, "il ritmo cardiaco e la pressione sanguigna sono aumentati fortemente, ma meno allorché era stato chiesto loro di dedicare qualche minuto a pensare a qualcuno che stava loro a cuore". Col passare degli anni l'effetto che ha l'avere amici su cui contare e da cui essere apprezzati aumenta enormemente. Anche l'ottimismo pare rallentare persino la progressione dell'aterosclerosi. Karen Matthews, psicologa dell'Università di Pittsburgh, ha tenuto sotto osservazione per tre anni 209 donne sane in fase di post-menopausa, e ha riscontrato che le più ottimiste avevano un ispessimento delle arterie carotidee molto esiguo, intorno all'1 per cento soltanto, rispetto a un ispessimento del 6,5 delle donne pessimiste. Ridere oggi è considerato un vero elisir per il cuore: in uno studio recente Michael Miller della facoltà di medicina dell'Università del Maryland ha constatato che assistere a un film divertente per 15 minuti rilassa le arterie periferiche e aumenta il flusso sanguigno per oltre 45 minuti, un effetto comparabile solo a quello di un esercizio aerobico. Miller pertanto, insieme a uno stile di vita salutare, prescrive anche 15 minuti di risate al giorno.

È naturale chiedersi se altre metodiche di intervento sull'umore, quali la psicoterapia o la somministrazione di farmaci, possano arrecare beneficio ai pazienti affetti da malattie cardiache. La ricerca è ancora agli inizi a questo riguardo, ma non vi sono molte prove che attestino che la psicoterapia (seduta medico-paziente) sia proficua. Almeno uno studio ha dimostrato un possibile effetto protettivo degli antidepressivi Ssri, inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina. Altri farmaci dell'umore non sembrano avere effetto sulle malattie cardiache, e questo lascia supporre che i miglioramenti derivanti dagli Ssri siano un effetto biochimico collaterale, da non doversi mettere in relazione con la depressione in quanto tale.

È quasi paradossale che gli interventi psicologici, privi di rischio e poco costosi, siano i trattamenti cui solitamente si ricorre per ultimi nel caso di pazienti cardiaci, una volta che si siano già esaurite tutte le possibilità offerte dall'angioplastica, dagli stent, dai bypass, dalla chirurgia e da trattamenti vari. Harvey Zarren, responsabile del programma basato sul metodo di Dean Ornish (vedi box in questa pagina) presso il North Shore Medical Center's Union Hospital di Lynn, in Massachusetts, una sera a settimana, per due ore e mezza, guida i suoi pazienti in una seduta di meditazione, seguita dallo yoga, da esercizi di rilassamento e da una sessione di terapia di supporto di gruppo, nel corso della quale i pazienti condividono i loro fallimenti e i loro successi. E una delle prime domande che egli rivolge loro è: "Ha una persona cara con la quale condividere i suoi sentimenti?".

'Newsweek' - 'L'espresso' traduzione di Anna Bissanti
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La miglior cura è l'amore
di Dean Ornish


Ho conosciuto un dirigente di 61 anni: era nel bel mezzo di un divorzio e aveva perso i contatti con i suoi amici e i suoi famigliari quando la primavera scorsa ha avuto un infarto. Il suo medico,senza sapere i dettagli della sua vita personale, gli ha consigliato di cambiare regime alimentare, di iniziare a fare sport e di smettere di fumare. Gli ha altresì prescritto dei farmaci per abbassare il colesterolo e la pressione. Indubbiamente si tratta di suggerimenti più che validi, ma consultando la letteratura medica, il paziente ha scoperto di dover fare qualcosa di più. Gli studi lasciavano infatti intendere che le sue possibilità di morire entro sei mesi sarebbero state quadruple se egli fosse rimasto depresso e solo. Il dirigente è quindi entrato a far parte di un gruppo di supporto, ha cambiato le sue priorità, collocando i rapporti interpersonali in cima alla sua lista, invece che alla fine. La sua salute da allora è andata costantemente migliorando. E oggi descrive l'infarto come la cosa migliore che gli sia mai accaduta nella vita: "Sì, le mie arterie oggi sono più aperte; ma, cosa molto più importante, sono io a essere molto più aperto". Ora la medicina si concentra essenzialmente sui farmaci e sulla chirurgia, i geni e i batteri, i microbi e le molecole. Eppure, alla base di ciò che ci fa ammalare, così come di ciò che ci fa stare bene, c'è l'amore. Se una nuova terapia farmacologica potesse avere lo stesso impatto che ha l'amore, omettere di prescriverla vorrebbe dire rendersi colpevole di imperizia. I rapporti con gli altri influiscono non soltanto sulla nostra qualità della vita, ma anche sulla nostra sopravvivenza. Tutti gli studi evidenziano infatti che le persone sole hanno moltissime più probabilità di ammalarsi di una malattia cardiovascolare di coloro che hanno un forte senso di relazione e di appartenenza a una comunità. Personalmente, in medicina non conosco nessun altro fattore - dieta, fumo, esercizio fisico, genetica, farmaci, chirurgia - che abbia un impatto maggiore sulla nostra qualità della vita, sull'incidenza di malattie e la morte prematura. In parte, questo si spiega col fatto che le persone sole hanno molte più probabilità degli altri di abbandonarsi a comportamenti auto-distruttivi. Ma, d'altro canto, è vero che l'amore protegge il cuore con modalità che noi non comprendiamo fino in fondo. Per guarire, il primo passo da fare è prendere coscienza della correlazione precisa che esiste tra il modo in cui viviamo e quanto a lungo vivremo. A quel punto diventa più facile fare scelte diverse. Invece di considerare un lusso il tempo che trascorriamo con amici e famigliari, potremmo arrivare a capire che questo tipo di relazione è tra i più potenti e determinanti fattori in grado di incidere sul nostro benessere e sulla nostra sopravvivenza. Noi siamo fatti per aiutarci reciprocamente. La scienza sta attualmente documentando il valore e l'effetto terapeutico dell'amore, dell'amicizia intima, del far parte di una comunità, della compassione, del perdono, dell'altruismo, dello spirito di servizio. *Docente di Medicina clinica all'Università della California di San Francisco, fondatore e presidente dell'Istituto di ricerca di medicina preventiva

'Newsweek' - 'L'espresso'

[Modificato da BeatAurora 24/03/2006 15.41]

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